GLI SCASSAPALLE

 

Pur sapendo di dare un dispiacere a quanti aspirerebbero a rientrare nella categoria sarà bene precisare subito che rompipalle si nasce; non lo si diventa. Si mettano l’anima in pace quanti, a seguito d’un torto subito, meditano di assumerne temporaneamente il ruolo per rendere difficile l’esistenza agli artefici delle loro disgrazie. Per quanto studiate possano essere le loro reazioni mai e poi mai reggerebbero il confronto con la perfezione di chi applica in ogni luogo e circostanza quel vero e proprio dono che hanno ricevuto da madre natura.

C’è chi viene al mondo dotato di predisposizione alla musica, chi ha talento per le finanze e chi prima o poi rischierà di finire in galera. Tutte attitudini che si riveleranno col tempo dal momento che i relativi segni premonitori, ammesso che ci siano, non si riveleranno che tra infanzia e pubertà. Il rompipalle, manco a dirlo, del tutto esente da siffatte lungaggini, manifesta fin dalla nascita le proprie doti.

I comuni neonati schiamazzano quando capita. Di solito, per farlo, attendono di aver male al pancino o di soffrire l’intervallo tra una poppata e l’altra; circostanze che il soggetto in esame considera del tutto marginali se non banali. Potete lasciarlo beatamente addormentato in un protettivo cono d'ombra restando certi che capterà con cronometrica precisione il momento in cui abbassate le palpebre per lanciare strilli che sembreranno barriti. Dopo avergli cambiato il pannolino ed avendo provveduto al suo nutrimento, date un colpo alla farfalla che dondola sulla culla e vi precipitate in bagno. Il pargolo tace fino a quando non percepisce il momento clou della "seduta" e solo allora comincia a sbraitare peggio che se lo stessero scannando.

Naturalmente fiuto e percezione gli si affineranno sempre più col trascorrere del tempo fino a quando quello che i genitori consideravano un tipo tutto sommato originale non si trasformerà in un autentico flagello per quanti avranno la sciagura di capitargli a tiro; anche perchè, nel caso specifico, risulterebbero vani gli slogan del tipo "se lo conosci lo eviti!". Conoscerlo! Ecco il problema!

Non vi capiterà mai d'incontrarne uno che, cavatosi educatamente il copricapo, proponga di affliggervi per più ore con le sue insopportabili argomentazioni. L'amico è tutt'altro che un fesso; al punto da nascondere a sè stesso le pestilenziali potenzialità di cui dispone. A seconda dei tempi e delle circostanze assumerà le sembianze dell'amabile conversatore, del curioso, del benefattore, perfino del delinquente, quando non addirittura del politico. Ma, tra tutti i possibili camuffamenti, quello del moralista resta tanto efficace e micidiale da travolgere non solo le persone fisiche, ma intere strutture, istituzioni e perfino forme di governo. Se vi sembra esagerato non dovete fare altro che riesaminare con più impegno le vicende anche più remote della storia nostrana perchè la cosa vi salti agli occhi con la dovuta evidenza.

Prendiamo il declino della repubblica romana sul quale, da studenti, non hanno fatto altro che raccontarci un cumulo di fesserie, quando un minimo di reale conoscenza dei fatti non potrebbe che portare alla chiara conclusione che due furono i principali artefici di quel progressivo decadimento del senato che avrebbe spianato la strada al principato ed all'impero; rispettivamente, per dovere di cronologia, Catone e Cicerone.

Il primo, di professione censore, famigerato ficcanaso a carico dell'erario, non faceva che bighellonare per l'urbe dall'alba al tramonto alla caccia di pettegolezzi sul conto di questo o quel patrizio. Quando aveva raccolto sufficiente immondizia (mancando ancora qualche millennio all'invenzione della privacy) correva felice a riversarla in senato dove, sulle prime, i padri coscritti dovettero trovare la cosa alquanto divertente. "Ho prove certe che Marco Pisone sono due mesi che porta le corna..." E tutti (anche i più vecchi e sdentati) giù a ridere. "Emilio Rufo si agghinda un po’ troppo ed ha cominciato a farsi la barba quasi ogni giorno; qualche dubbio che sia un finocchio?" e via ad altre più fragorose risate.

Col trascorre del tempo, tuttavia, a quanti erano soliti transitare nei pressi dell'augusto edificio non poteva sfuggire che, al pari d'una radio con le batterie ormai esaurite, il volume delle risate calava di giorno in giorno al punto da costringere i più curiosi a starsene con le orecchie attaccate alle pareti della cinta muraria per appurare se all'interno ci si stesse ancora divertendo.

Cosa stava accadendo?

Semplice! Inorgoglito dai suoi primi successi, il censore aveva cominciato a spiare ogni passo, ogni mossa e perfino ogni intenzione degli stessi senatori. Fosse stato un ricattatore o un ambizioso, la cosa sarebbe rientrata nella norma e tutto si sarebbe aggiustato in qualche modo, ma Catone, aderente com'era al ruolo dell'autentico scassapalle , che piovesse o fosse influenzato, continuava a recarsi puntualmente in senato dove ora, quando alzava la mano, anche per una semplice mozione d'ordine, tutti i rappresentanti dell'alma Roma, correvano a nascondere le mani tra le ampie pieghe delle toghe che, immancabilmente, finivano per ondeggiare freneticamente nell'avvallamento delle gambe.

La disaffezione per le riunioni cominciava a mostrare i connotati del contagio al punto che alcuni sfruttavano il fenomeno ricorrendo a forme di sottile strumentalizzazione del censore. Come?

Mettiamo che il senatore Gaio si apprestasse a presentare un disegno di legge che non andava per niente a genio al collega Sempronio. A quest'ultimo, sprovvisto dei numeri per contrastare l'avversario, non restava che rintracciare il Catone, spiattellargli un certo numero di porcate a carico di più membri dell'assemblea ed attendere fiducioso la ripresa dei lavori parlamentari.

Alla data del fatidico dibattito i solerti littori non facevano in tempo ad aprire le porte che già il censore era penetrato all'interno per sistemare in bell’ordine su di uno scanno le pergamene zeppe dei suoi velenosi appunti, indispensabili per conciare a dovere un bel mucchio di senatori.

Di lì a poco ecco spuntare Gaio con a tracolla il papiro della proposta di legge. Passava un'ora e solo un piccolo angolo dell'emiciclo dava qualche segno di vita rappresentato dal mormorio di quattro o cinque vecchietti (immancabilmente i più rincoglioniti).A mezzogiorno: situazione immutata, rituale presa d'atto della mancanza di numero legale, rinvio a data da stabilirsi e tutti pranzo.

Quando, per la clemenza di madre natura, Catone tolse il disturbo l'assenteismo parlamentare era già entrato a far parte della migliore tradizione senatoriale.

Forse, col tempo, un risveglio di orgoglio per il proprio mandato avrebbe potuto risollevare il ruolo della nobile assemblea. Purtroppo, poiché le disgrazie non vengono mai sole, una nuova e più decisiva figura di rompipalle si affrettò ad eliminare quel poco di prestigio che il predecessore non era riuscito a togliere alla struttura.

Se Catone aveva introdotto la pratica dell’assenteismo a Cicerone toccò fiaccare il senato con la micidiale tecnica dell’ostruzionismo.

C’era stato un tempo in cui quanti erano chiamati a deliberare lo facevano per lo più in maniera sbrigativa; quattro chiacchiere alla buona, magari intervallate da una generosa bevuta, dopodichè si passava a sentenziare in SPQR. Tempi felici dei quali, dopo Cicerone, si sarebbe perso finanche il ricordo.

Mettiamo che qualcuno sollevasse in aula un modesto problema. Che so: come recintare al meglio il tempio delle vestali per impedire alle mucche di andarla a fare proprio in quel luogo. Dopo che due o tre senatori avevano intrattenuto l’uditorio per non più di dieci minuti, ecco levarsi tra i banchi la grassoccia figura dell’avvocato. Già il fatto che per parlare andasse a disporsi nel bel mezzo dell’emiciclo la diceva lunga sulle rotture che meditava di infliggere all’uditorio. E qui attaccava con una interminabile dissertazione sugli usi e costumi delle mucche, sulla composizione nutrizionale del loro mangime per dimostrare la causa del tremendo lezzo che affliggeva le sacerdotesse di Vesta. Trascorse un paio d’ore, chi si illudeva che l’altro stesse per mollare provava una fitta allo stomaco notando che, ad un cenno dell’imperterrito parlatore, un valletto si faceva largo tra le toghe per portare all’avvocato un capiente calice colmo d’acqua. Non era che il prologo al quale altre tre o quattro ore sarebbero state appena sufficienti ad illustrare pregi e difetti, con relative implicazioni legali, dei vari modelli di steccati disponibili sul mercato.

Il presidente, sempre più scuro in volto, rivoltava la clessidra con crescente nervosismo (a rischio di sfasciarla).

In pomeriggio avanzato, alcuni dei presenti, colti da un sonno riparatore, avevano trovato temporaneo rimedio alle loro sofferenze. Altri, dopo aver levato la mano nel segno di Churchill, s’erano dileguati verso le latrine che avevano scavalcato a fatica prima di far perdere le loro tracce.

Così non poteva continuare. I frequenti ammonimenti rivolti al rompipalle avevano per unica conseguenza quella d’ispirargli sermoni sulla libertà di parola. L’insofferenza per il comportamento dell’avvocato aveva raggiunto l’apice. Così, mentre quello cominciava a sgolarsi, erano sempre più numerosi quanti trovavano interessante la contemplazione del soffitto e quanti, ancora, dandosi di gomito, si accoccolavano tra gli scanni per allontanarsi carponi dalla sala.

Alla lunga, pur non essendoci ancora la pratica degli indici di gradimento, anche un rompicoglioni di quel calibro, comprese che il suo gioco non aveva molte chances di protrarsi oltre impunemente. Gli risultò chiara l’alternativa tra desistere o farsi cacciare a calci nel sedere; una consapevolezza che avrebbe segnato la rovina del più squattrinato e (per ciò stesso) innocuo dei suoi colleghi.

E’ difficile, a distanza di qualche millennio, tracciare l’esatto profilo di Catilina, che, tuttavia, a lume di naso, doveva essere un po’ l’equivalente del nostro Bossi. I suoi colleghi, tutti ricchi e pasciuti borghesi, lo trattavano con le pinze e comunque mal tolleravano i suoi mugugni e le frequenti prese di distanza sui più svariati ordini del giorno. E’ appurato, tuttavia, che il personaggio, gravato com’era da mille grattacapi, a tutto avrebbe potuto pensare tranne che a congiurare contro la repubblica.

Gli avvocati hanno una predisposizione innata ad ingarbugliare le cose; ad inventarsele, quando è necessario, ed a renderle credibili gonfiando di dotte dissertazioni indizi che, presi da soli, non dimostrerebbero un accidenti. Cicerone, che era in grado di maneggiare siffatta arte con somma maestria, cominciò a fare incetta di tutte le lettere anonime che anche a quei tempi affliggevano il senato, sforzandosi di evidenziare in ciascuna di esse intenti di destabilizzazione.

Un anonimo libello insinuava che il senatore Pompilio passasse all’amante i proventi della tassa sul sale? Era un chiaro tentativo di mettere in pericolo la credibilità delle istituzioni. Una tavoletta anonima minacciava di conciare per le feste il propugnatore dell’ennesimo balzello? Altra subdola azione intesa a bloccare il lavori del parlamento. E cosa, se non l’ambizione d’un aspirante dittatore avrebbe potuto ispirare il papiro in cui si dava del culattone al presidente dell’assemblea ?

Il brillante oratore si affrettò a far arrestare una decina di disgraziati sospetti autori materiali di quegli scritti. Costoro, opportunamente ammorbiditi e manipolati, non ci pensarono due volte ad appellarsi ai benefici del pentitismo; indicarono in Catilina l’ispiratore dei testi e lo promossero al ruolo di capo-congiura.

All’indomani, quando il presidente di turno cercò di negargli la parola, Cicerone se ne venne fuori con la balla della patria in pericolo ed ancora una volta potè sistemarsi indisturbato nell’emiciclo rompendo i timpani per ore ed ore ai colleghi letteralmente annichiliti dai suoi sfoghi logorroici.

Impossibile imbrigliarlo. Chiunque l’avesse tentato avrebbe corso il rischio di passare per un fiancheggiatore dell’accusato. Così, di giorno in giorno, era sempre la stessa scena, ed ormai non ci si occupava d’altro che del fantomatico pericolo attraversato dalle istituzioni repubblicane.

L’oratore, che ormai trascorreva le notti a scrivere roboanti arringhe, dopo aver fatto ripetuti gargarismi, si precipitava in Senato dove, liberate le braccia dalla toga, "Fino a quando", esordiva rivolto a Catilina, "continuerai ad abusare della nostra pazienza ?" ."Vuoi vedere che ora sono io quello che rompe sempre i coglioni.?.." mugugnava l’altro contrariato, e per impedirsi di reagire alle provocazioni andava a sedersi in disparte, poneva le mani sulle ginocchia (quando non le usava per tapparsi le orecchie) e, mentalmente, pregava i suoi Lari che mandassero qualche accidenti all’autore delle sue disgrazie.

Alla fine i padri coscritti si videro costretti a condannare il presunto cospiratore; non perché fossero convinti delle sue colpe, ma in quanto condizionati dal chiaro presentimento che non sarebbero riusciti a sopravvivere oltre alle assordanti orazioni di Marco Tullio.

Daremmo prova di scarso senso democratico se chiudessimo il periodo della Roma antica dopo aver celebrato i fasti dei soli scassapalle blasonati (quelli con diritto a sopravvivere nei testi scolastici). Un minimo rispetto delle pari opportunità ci impone qualche considerazione sul ruolo giocato dai tanti umili esponenti delle classi subalterne che, pur senza far conto sulla memoria dei posteri, non mancarono d’impegnarsi con abnegazione nella difficile arte di rendere impossibile la vita ai loro coetanei.

Prendiamo i "clientes"; gente ingiustamente condannata all’oblio dopo aver fatto spedire alla neuro i malcapitati bersagli del loro morboso attaccamento.

All’angolo d’ogni dimora patrizia c’era sempre di vedetta qualcuno pronto a notare l’arrivo d’un quarto di bue, d’una mezza dozzina di polli o, più semplicemente, d’un carico di meloni. Non trascorrevano dieci minuti che già una piccola folla s’era raccolta sotto il porticato della nobile dimora pronta a reclamare a gran voce la distribuzione di vitto e bevande: "Che gli dei ti conservino lunga vita Gaio Tribonio. Pensa che ci siamo anche noi !". E se l’altro tentava di fare il sordo: "Ricordati che manca meno di un mese alle elezioni per la carica degli edili" o anche "Se non ti fai vivo col c. che verremo a testimoniare in tuo favore nel processo per mazzette che hai in corso". Era giocoforza accontentarli. Per la verità non mancarono tentativi di soggetti che, ritenendosi più furbi di altri, fatti due conti, preferirono disdire le forniture alimentari per andare a saziarsi al ristorante, ma i clientes, che non erano fessi, subito correvano in giro spargendo voce che il loro patrono era prossimo alla miseria ed al fallimento. Chiaro che, se quest’ultimo avesse persistito nella pericolosa abitudine di sfamarsi fuori di casa, avrebbe corso, come minimo, il rischio di farsi scansare peggio d’un appestato da quanti contavano qualcosa nell’urbe.

Altri e più gravi erano poi i guai confezionati di solito nell’ambito del sindacato cocchieri ai danni dei personaggi cui era stato decretato l’onore del trionfo.

Il generale vittorioso si dava una lucidata alla lorica, poneva sul capo la corona d’alloro, sbirciava all’indietro per assicurarsi che i legionari del seguito non si fossero nel frattempo imboscati in qualche taverna e, ignaro di ciò che lo attendeva, saliva maestoso sul cocchio. Immediatamente, e senza l’ombra d’una provocazione, l’auriga attaccava: "Ricordati che sei mortale. Non è proprio il caso che ti monti la testa". L’altro si sforzava di non raccogliere la provocazione, stringeva con rabbia il parabrezza del veicolo e cercava di tenere lo sguardo fisso sull’orizzonte. Questo, almeno, fino a quando qualche avvenente matrona parcheggiata in lettiga lungo il percorso del corteo non lanciava all’eroico protagonista inequivocabili segnali di alto gradimento. Senza un minimo di delicatezza l’uomo addetto alle briglie era pronto a borbottare: "Ricordati che hai una moglie e, se non ti basta, pensa al carattere di tua suocera". Chi gli stava accanto non era tipo da demordere, nemmeno quando il trionfatore era tanto usurato da risultare insensibile al gentil sesso (o ripugnante al punto da non poter fare leva sul fattore successo) . "Ricordati che tra cinque giorni ti scadono le cambiali che hai firmato a Quinto Varrone", o anche "Pensa che domani ti scatta l’accertamento fiscale sul bottino di guerra".

Ingessato da un’etichetta che impediva di prendere a sganassoni l’impertinente, l’uomo del giorno continuava a farsi il sangue marcio, bestemmiava mentalmente contro tutte le divinità dell’Olimpo giurando, infine, su quanto aveva di più caro, che mai e poi mai avrebbe sottostato ad un altro trionfo.

Non passò molto che (a parte il caso di sporadiche manifestazioni di sadismo da parte di imperatori che imponevano ai propri nemici la scelta fra trionfo e morte con infamia) solo militari di scarso acume spingevano le loro imprese fino a richiare il trionfo, con conseguenze fin troppo comprensibili e che, di fatto, si compendiano nella progressiva rovina delle armate imperiali.

La storia, e non solo quella italiana, è piena di figure grandi e piccole, antiche e moderne, di gente che ha speso la vita (qualche volta fino a rimettercela) nel rendere dura l’esistenza a comunità, regni e dinastie.

Che dire, ad esempio, di personaggi come Pietro detto l’"Eremita" per la cura con cui i suoi conterranei cercavano di scansarlo ? O del più famigerato Savonarola in grado di trasformare in vera e propria epidemia (v. ruolo dei Piagnoni) la sua vocazione a rompere ?

Basta! Il rischio di confondermi con gente di tal fatta m’impedisce di proseguire in una lunga dissertazione che pure mi tenterebbe. Preferisco, allora, chiudere con un episodio che ha del surreale (e sulla cui autenticità è inutile che facciate ricerche).

Siamo a Parigi dove mancano ancora poche ore all’alba del 15 Luglio 1789. La giornata da poco trascorsa è stata, per molti, tra le più faticose e non si contano quanti hanno dovuto barcamenarsi tra l'assalto alla Bastiglia, la partecipazione alle discussioni dei club politici, ed il saccheggio di qualche bottega lasciata incustodita da negozianti incapaci di perdersi gli eventi del 14.

Per le strade malamente illuminate da lampioni che, a tratti, proiettano sul selciato la sagoma d'un impiccato, si aggira un borghese piccolo piccolo, occhialuto ed in preda ad evidente agitazione. Ecco che bussa con energia al portoncino di un'abitazione per poi chiamare a gran voce: "Framcois!.....Oh...Francois!

Sul balconcino sovrastante, frastornato dalla levataccia, spunta un tizio in camicia da notte, che cerca invano di riconoscere chi lo ha buttato giù dal letto.

"Tieni presente che giorno è oggi ?" urla ancora il borghesuccio.

"E' il giorno che te la vai a prendere in c. !" reagisce l'altro spazientito. Gli sbatte sul muso le persiane e se ne torna a dormire bestemmiando.

Il nottambulo leva la mano spazientito e tira oltre. Dopo sei o sette isolati ritenta l'impresa presso quella che sembra una locanda.

"Jerome!...Oh....Jerome !"

Questa volta è impossibile ripetere la domanda. Dalla finestra del primo piano vola un pitale che per poco non centra l'interlocutore.

L'ometto si sobbarca ancora alcune centinaia di metri. Ha appena azionato il battitoio d'un uscio che lo spuntare delle canne d'una doppietta lascia chiaramente intendere come non sia il caso di soffermarsi oltre.

Ormai prossimo alla periferia, il viandante opera un ultimo tentativo tirando qualche calcio alla porta d'una casupola tutta sgangherata.

"Armand !...Oh...Armand !

Dalla finestrella del seminterrato trapela la pallida luce d'una candela. Dopo un pò compare la testa pelata d'un vecchietto che pare riconoscere l'uomo della strada.

"Louis !...Sei tu ?"

L'altro ripete ansimante la domanda: "Tieni presente che giorno è oggi ?"

L'anziano rivela qualche incertezza.

"Siamo al 15 Luglio dell'89 !!!"

"E...con ciò ?"

"L'età moderna è finita! Siamo entrati tutti a far parte della "contemporanea"!!!"

Appena iniziata, la nuova era doveva già vedersela con le nuove generazioni di rompicoglioni.